Palazzo Nuovo per tanti di noi studenti umanisti di Torino è come una casa, quel luogo dove passiamo la maggior parte della nostra giornata.
Quel posto che, a dispetto del “Nuovo” contenuto nel nome e reso un po’ più credibile dal rifacimento della facciata, contiene tante aule fatiscenti, bagni a volte inservibili, uffici che non ci danno risposte, aule poco capienti che ci richiedono alzatacce alla mattina per assicurarci un posto a lezione, studenti seduti in ogni dove, sedie rotte … L’elenco potrebbe essere lungo.
Ma è anche il luogo dove tiriamo fuori il nostro “baracchino” per far pranzo, accaparrandoci un posto nelle panchine dell’altrio quando fa freddo o fuori sui gradoni laterali quando il sole incomincia a scaldare le nostre giornate.
E’ il luogo dove nascono amori, amicizie, dove si impara l’arte dell’arrangiarsi, dell’improvvisarsi; dove si impara e si affina la pazienza, dove si impara a collaborare e solidarizzare perché, “siamo tutti sulla stessa barca”.
E’ qui che ieri una studentessa ha deciso di dire basta. A cosa non lo sappiamo, e forse non ha nemmeno senso saperlo. Non sappiamo il suo nome, e forse anche questo è un dettaglio che non serve, ora.
Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche aveva nella borsa un biglietto datato 8 marzo con cui chiedeva che i suoi organi venissero donati, in caso di morte.
Non è la prima volta che capita che una morte così inspiegabile fa capolino nella mia vita in una dimensione a me vicina.
Sento un senso di sgomento profondo che non riesce a darmi pace.
Penso che magari questa ragazza abbia sfiorato le mie giornate universitarie, abbiamo studiato nello scranno accanto al mio in biblioteca. Chi lo sa.
E’ vero, nessuno di noi sa … perché.
Mi fa molta impressione pensare al luogo che questa ragazza ha scelto per dire basta, l’università. Perché sono convita che il luogo racconta l’esperienza che io faccio. E allora deve far più rumore se il luogo per mettere fine ai propri sogni è proprio quello dove dovremo coltivarli, insieme al nostro futuro; quel luogo dove ci costruiamo prima di tutto come persone. Ne ho lette di tutti i colori, accuse alla politica, al “sistema”. Sarà, ma penso che ci sia di più.
L’università è quel luogo della fretta, dove si esce da una lezione per correre verso la prossima, dove ognuno cerca un po’ di pararsi, a volte passando sopra l’altro, quel luogo iper-affollato dove però ci si può nascondere la propria solitudine con molta facilità. Ma è anche il luogo dell’incontro, del caffè, dello scambio dei libri, dello scambio dei consigli sugli esami e dei favori.
Mi fa impazzire l’idea di una cosa covata dentro da tempo, portata avanti per giorni senza che nessuno abbia potuto, saputo accorgersene.
C’è qualcosa che non mi lascia in pace, in fondo a tutto ciò: sono capace di guardare l’altro, sentire i suoi bisogni, le sue necessità, farle mie? Sono capace di stare accanto, di accompagnare, di capire, di comprendere nel profondo chi ho accanto, per saper intercettare quello che non va, e farmene carico?
Sono ancora capace di guardare le persone nel loro sguardo?
Sono capace di dimostrare con la mia vita che questa vita è sì, tremendamente complicata e difficile, ma vale la pena di essere vissuta? E se penso di averci trovato un “segreto”, lo tengo per me o lo condivido?
Dall’altra parte mi chiedo se sono capace di non tenermi tutto dentro, di non pensare sempre di potercela fare da sola, di chiedere aiuto, a costo di dimostrarmi debole, di farmi aiutare quando non ce la faccio.
Quelle che ho fatto sono domande che faccio prima di tutto a me stessa, perché è da qui che voglio ripartire: dalla speranza che sappiamo esserci di più gli uni per gli altri, essere più parte delle nostre vite.
Siamo stati creati in dono, gli uni per gli altri. Facciamo che non sia solo una frase scritta in un libro di spiritualità, ma che sia l’esperienza che possiamo fare, reciprocamente.