Oggi mentre studiavo, sbobinando quintali di ‘è chiaro questo concetto?’, guardavo fuori da quella finestra che dà sui tetti del centro città. Guardavo e osservavo il cielo, in questi giorni torinesi così volubile: uno squarcio di sole, poi di nuovo le nuvole, pioggia scrosciante e improvvisa, folate di vento che piegano le foglie del grande albero e che fanno muovere le antenne sulle case.
È come se il tempo in questi giorni seguisse il ritmo incessante delle mie paure, dei miei pensieri, di quel giornaliero stillicidio emotivo, in un certo senso, che mi accompagnerà, volente o nolente, fino a settembre. Con quella sottile ma quanto mai presente tentazione di leggere dietro parole, gesti o atteggiamenti una cosa o l’altra, ben sapendo che il Regista di questa vita sa meglio di noi come condurre le cose. Anche quando ci fanno male e soffrire, potenzialmente.
Mi sento come quell’albero, che gode di quella punta di Sole che esce come chi nel deserto accede ad un sorso d’acqua; e che vuole provare ad accettare l’impetuosità del vento che gli scompiglia le foglie, a volte senza pietà.
Sapendo che anche questo soffrire ha un senso che va al di là del mio capire.
(Photo credit di un mio contatto di Facebook)