Stamattina sul pullman mi è caduto distrattamente l’occhio su una ragazza che seduta vicino all’obliteratrice, la mia meta di quel momento, armeggiava con un modellino di plastica. Un passatempo davvero insolito, considerando che la posa comune ormai è quella di due occhi chinati sul proprio smartphone – e io non faccio differenza, in questo, approfittando di questi tempi vuoti per leggere un po’ di cose utili per il mio aggiornamento professionale day-by-day.
Mi ha incuriosito. Ho immaginato fosse una studente di Architettura e quel plastico fosse il frutto di un duro lavoro fatto non solo di ore ed ore di fatica, ma magari anche di qualche ora in bianco.
Ma la mia attenzione era però tutta per quel modellino e quel pezzo di carta vetrata dal fondo rosso che utilizzava per raffinare le curve del modellino bianco che teneva in mano, cercando di prevenire gli scossoni e gli strappi delle frenate del bus.
Mi ha colpito la delicatezza con cui curava alcune curve e allo stesso tempo la ruvidezza con cui smussava alcuni angoli, probabilmente non venuti in prima battuta come ci si sarebbe aspettati. Uno sguardo più attento poi rivelava quà e là alcune imperfezioni, qualche pezzo di scotch. Eppure lei continuava, imperterrita, a curare e raffinare quel suo lavoro.
Ho immaginato di essere io quel modellino. Con i miei angoli oscuri, i pezzi di scotch che tengono insieme le mie mancanze, le mancanze di coraggio … tutto quello che di sbagliato posso vedere nella mia vita. Ma anche con quei pezzi curati, definiti, rifiniti.
E ho immaginato qualcuno, non necessariamente sempre e solo in una dimensione trascendente, che si prende di cura del suo modellino: me. Con forza e con ruvidezza, a volte. Con un’attenzione delicata altre, per smussare angoli ancora troppo ruvidi. E lo fa anche e nonostante lo scotch. E tutto ciò che esso copre o cerca di nascondere.