“Passion still lives here” (la passione vive ancora qui), parafrasando lo slogan che aveva accompagnato le Olimpiadi a Torino 2006. Alla scoperta di una città radicalmente cambiata dall’incontro con il mondo.
Vanno in scena in questi giorni i festeggiamenti per il decennale delle Olimpiadi a Torino, ospitate dal capoluogo piemontese nel febbraio 2006. Ricordare è una necessità nata già mentre si ammainavano i drappi rossi “Passion lives here” (riapparsi in città per l’occasione) che avevano ricoperto i grandi viali e ci si rendeva conto della metamorfosi che questo evento aveva portato, non solo in termini di servizi e strutture, ma nell’anima più profonda della città: i torinesi. Gli stessi che fino ad allora si sentivano infastiditi dalla notorietà fagocitante delle altre città italiane, senza però aver mai avuto la capacità di valorizzare la propria e che guardavano i turisti in città quella loro tipica diffidenza di chi si sentiva quasi disturbato dalla loro presenza.
Poi sono arrivati i cantieri pre-olimpici, il centro sequestrato dalle ruspe e una città che si tirava a lucido mentre i suoi cittadini si sentivano vittime di seccature e disagi di cui avrebbero fatto volentieri a meno, facendo previsioni molto cupe su ciò che le Olimpiadi avrebbero davvero potuto dare alla città.
Il braciere olimpico si è acceso, frotte di turisti hanno invaso le strade del centro, in forte antitesi con la tipica compostezza dei torinesi. Tante iniziative culturali gratuite, le giubbine rosse dei volontari che andavano sù e giù dai luoghi delle gare ed un entusiasmo contagiante, con la “Medal Plaza” sede delle premiazioni e le vie del centro sempre più prese d’assalto dai torinesi stessi, richiamati da quel sottile orgoglio di sentirsi finalmente al centro dei riflettori: Torino si stava scoprendo orgogliosa di accogliere il mondo e il mondo incominciava a conoscere Torino.
Olimpiadi a Torino: non tutto è oro quel che luccica
L’eredità lasciata dalle Olimpiadi non è tutta positiva: pesanti debiti, strutture, impianti e cattedrali a cielo aperto nelle montagne olimpiche a cui nessuno ha trovato ancora modalità di riutilizzo adeguate. E’ venuta in rilievo l’esistenza di una spaccatura tra le aree centrali e le zone più periferiche, impegnate in lunghi lavori di riqualificazione urbana e sociale e dove la lungimiranza progettuale delle giunte comunali di 20 anni fa, che ha permesso il miracolo olimpico, richiede oggi necessariamente una nuova fase di progettazione più orientata a rendere “centro” anche le periferie.
Cosa è cambiato dalle Olimpiadi a Torino
Non sono cambiati i modi di fare, la riservatezza e la sobrietà che contraddistingue il torinese, quella leggera iniziale diffidenza che studia da capo a piedi l’ospite prima di tendere la mano raccontata dagli stereotipi, perché poi i decenni di contaminazione con culture diverse hanno allenato ad una accoglienza più calorosa. Le Olimpiadi hanno rivoltato Torino e i torinesi nel loro profondo, costruendo in loro una nuova consapevolezza, portandoli a saper apprezzare e valorizzare le proprie bellezze ed eccellenze senza paura di metterle in mostra. E, seppur dentro al disagio sociale che tocca le nostre “città di uomini soli” aggravato dalla crisi, a scoprire una nuova dimensione e identità comunitaria di aggregazione, dove le piazze sono diventate luoghi da vivere insieme, nelle tante iniziative che la Torino post-olimpica ha saputo e sa proporre.
L’eredità delle Olimpiadi a Torino: una nuova vocazione come “Capitale della Fraternità”
Riguardare ora l’esperienza del periodo olimpico significa interpellare le nostre città, dove oggi la paura del diverso e della perdita della propria identità si fa pressante: per poter capire pienamente sé stessi e per valorizzare la propria identità abbiamo bisogno di una tridimensionalità maggiore, di guardarci e scoprirci cioè attraverso gli occhi degli altri. Senza lo specchio del “popolo delle Olimpiadi” Torino non avrebbe potuto trovare sfumature nuove, sviluppare un senso di appartenenza e orgoglio verso il territorio e la capacità di accendere i riflettori su bellezze che i torinesi già conoscevano, ma che non avevano avuto il coraggio di valorizzare.
Nel 2006 era un puntino sconosciuto sulla mappa italiana, oggi Torino è diventata meta per i concerti di grandi artisti internazionali e delle molteplici iniziative culturali. Non stupisce che il New York Times l’abbia inserita nella lista delle 52 città del mondo da visitare nel 2016, certificandone il salto di qualità compiuto, e reso possibile dalla capacità di lasciarsi stimolare dall’incontro con gli altri. E per una città chiamata ad essere “Capitale della Fraternità”, riscoprire questo rappresenta il modo migliore per cerare di continuare a vivere dentro a questa sua vocazione. Tante ferite sociali sono ancora aperte, ma ricordare l’esperienza olimpica può servire alla città per trovare il coraggio di sognare, per recuperare quella coesione che aveva caratterizzato i giorni delle olimpiadi e che può permettere ora di trovare insieme le risorse per ricucire le ferite.