Adesso mi chiede i soldi

elemosina

Si vicina un africano. Un altro. L’ennesimo. “Adesso mi chiede i soldi…” penso e sbuffo. “Speak English?” mi domanda invece. Dall’ alto della mia impostazione accademica gli rispondo “Yes, I do”. “You do” ribatte lui e non per sorpresa, ma come sottile sberleffo alla mia risposta troppo corretta. Banale dire che della grammatica non se ne fa nulla lui. Mi parla della Nigeria (“adesso mi chiede i soldi” penso), mi parla del lavoro che svolgeva là e della sua sistemazione qua (“me li chiederà adesso i soldi” ripenso); capisco la metà, ma una parola risalta su tutte le altre: “beg”. Mi racconta la sua difficoltà a chiedere l’elemosina, a mendicare. L’ avevo capito, i soldi non me li ha chiesti! Mi chiede un lavoro invece. Un lavoro! Mi sento impotente. E insieme al lavoro capisco che mi sta chiedendo di riconoscere la sua dignità, di guardarlo come “la persona che era in Africa”. E’ ora di andare, ci salutiamo, sento però che manca un tassello: “what’s your name?”, “and yours?”. E’ la domanda magica: io non l’ho più guardato come l’ “ennesimo”, lui ha riacquistato un pezzo di consapevolezza di esistere.

Da un post di Marta P. su Facebook.

Le Olimpiadi a Torino 10 anni dopo

Passion Lives Here, le Olimpiadi a Torino dieci anni dopo“Passion still lives here” (la passione vive ancora qui), parafrasando lo slogan che aveva accompagnato le Olimpiadi a Torino 2006. Alla scoperta di una città radicalmente cambiata dall’incontro con il mondo.
Vanno in scena in questi giorni i festeggiamenti per il decennale delle Olimpiadi a Torino, ospitate dal capoluogo piemontese nel febbraio 2006. Ricordare è una necessità nata già mentre si ammainavano i drappi rossi “Passion lives here” (riapparsi in città per l’occasione) che avevano ricoperto i grandi viali e ci si rendeva conto della metamorfosi che questo evento aveva portato, non solo in termini di servizi e strutture, ma nell’anima più profonda della città: i torinesi. Gli stessi che fino ad allora si sentivano infastiditi dalla notorietà fagocitante delle altre città italiane, senza però aver mai avuto la capacità di valorizzare la propria e che guardavano i turisti in città quella loro tipica diffidenza di chi si sentiva quasi disturbato dalla loro presenza.

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Dietro la foto di Aylan, ancora una volta noi

AylanHo letto tanto in questi giorni riguardo alla questione della foto del piccolo bimbo siriano, riguardo all’opportunità o meno di pubblicare la foto, cruda, del bambino siriano adagiato sulle coste della Turchia e coccolato, per l’ultima volta, dalle onde calme di quel mare che ha interrotto bruscamente il viaggio verso le coste europee e sopratutto la sua piccola vita.

Ho letto perché, prima di provare nel mio piccolo a dire qualcosa, mi piace provare ad ascoltare e capire.
Le scuole di pensiero sono molto diverse: c’è chi ha deciso di pubblicarla per mettere in evidenza la crudeltà e l’incancellabile evidenza, che tante volte fingiamo di non vedere e con cui non vogliamo fare i conti; c’è chi invece ha deciso di censurare e se l’è un po’ presa con i primi, sostenendo che pubblicare questa foto serva soltanto per pulirsi per un attimo la coscienza, ad un attivismo da tastiera, tra un selfie delle proprie vacanze e l’altro.

Credo, e provo a dirlo con gli occhi di chi sta studiando comunicazione, che siano e debbano essere ritenute entrambe scelte rispettabili. Credo, cioè, che dovremmo pian piano incominciare a recuperare la capacità di accettare l’idea di essere esseri complessi e come tali riuscire quindi a tenere intelletualmente insieme cose e convinzioni che paiono diametralmente diverse come può essere il codice deontologico del giornalista o del comunicatore con la scelta di mettere in prima pagina quella che, penso nessuno lo possa negare, sia diventata un’icona che riassuma un dramma. Ognuno di noi ricorderà la fotografia della bambina vietnamita con le braccia alzate. Ecco, come quella anche questa diventerà un’immagine emblematica da libro di storia. Perché è questo che a mio modo di vedere rappresenta quella foto: un’icona di una questione tremendamente molto più complessa e complicata che è improvvisamente scoppiata nelle mani dei governi europei, che pure non potevano non aver colto le avvisaglie dei decenni di viaggi della speranza attraverso il Mediterraneo.

La scuola di pensiero della censura ritiene che non bisogna speculare sul dolore e sulle vittime, a maggior ragione se bambini. E’ vero, un’immagine del genere passa nelle nostre timeline su Facebook o davanti agli occhi al bar mentre leggiamo il giornale in mezzo ad un bombardamento di tante altre cose oltremodo futili e rischia di diventare routine, banalizzata. E’ vero, condividere su Facebook o retweetare una foto su Twitter è un’azione assolutamente comoda, rapida ed indolore, per certi versi, per pulire la propria coscienza.

Ma, c’è un ma. Sappiamo e conosciamo questa enorme tragedia, ma viviamo in una società dove, immersi in un bombardamento informativo senza precedenti sono le immagini che attirano l’attenzione. Tanto vero che in tutti i corsi di Social Media Marketing che ho frequentato la parola d’ordine è: puntare sull’aspetto visuale delle immagini. Perché è l’immagine che interrompe il flusso ininterrotto di parole. Non è infatti vero che oggi tutto quello che non è selfato, fotografato e sopratutto mostrato ed ostentato, semplicemente non c’è? E se poi la fotografia mostra la morte, per di più di un bambino, è il nostro innato spirito di conservazione e protezione che viene toccato. E allora, forse, “vediamo” e non riusciamo ancora una volta a voltarci di fronte a questo dramma, e comprendere, attraverso la storia di Aylan tutte le altre che abbiamo fino ad ora ignorato e che la sua racchiude drammaticamente.  Sono convinta di ciò: abbiamo bisogno di vedere per tornare a contatto con la cruda realtà, anche per quel misero secondo in cui l’immagine ci scorre davanti agli occhi. Pena il rischio di anestetizzare il nostro cuore e la nostra mente davanti a ciò che succede per davvero, attorno a noi.

Io personalmente ho deciso che non avrei condiviso questa foto sul mio profilo Facebook, l’avevano già fatto praticamente tutti e mi sembrava non avrebbe aggiunto nulla. Ma il mio cuore non può fare a meno di sussultare ogni volta che appare nella mia timeline, in questi ultimi giorni anche in versioni più poetiche ed ancora più evocative. E’ una fitta che mi fa male, un male tremendo perché mi sento impotente.
C’è una frase di una canzone di Jovanotti che in questo periodo mi risuona spesso in testa, leggendo queste polemiche: “Ma l’unico pericolo che sento veramente è quello di non riuscire più a sentire niente“. Andatevela a risentire, questa canzone. Il pericolo dell’indifferenza, delle immagini che mi passano davanti senza suscitarmi più indignazione, rabbia, dolore, sgomento, angoscia. Quest’estate, accarezzando il mare in cui io cercavo riposo e che per altri è invece l’unica agognata via di fuga, c’era una domanda che, senza risposta, in modo martellante si faceva spazio dentro alla mia testa: “Per quale merito, io sono nata da questa parte del mare? Per quale coincidenza il mare per me è sintomo di spenseriatezza e per altri rappresenta la tomba azzurra?”.

Tornando alla querelle pubblicare la foto sì, pubblicare la foto no, quello che mi sembra emerga in entrambe le parti sia il non renderci conto, ancora una volta, che mettendo la nostra attenzione su questo aspetto continuamo ad ergerci noi al centro dell’attenzione e del discorso. Noi che giudichiamo, chi ha fatto bene e chi ha fatto male. Ognuno ha la sua sensibilità, il suo modo di sentire le cose. Io, ad esempio, pur non essendo in questo caso contro la pubblicazione di queste foto, lo sono stata nei confronti del video del giornalista americano che ha ucciso due colleghi e lo sono per le immagini delle uccisioni dell’ISIS. Perché per me, quelle immagini che mostrano come uomini e donne muoiono, portano in campo aspetti semantici, se così posso dire, diversi.

Noi siamo qui che ci accusiamo a vicenda di aver pubblicato o non aver pubblicato e ci guardiamo il dito; ed intanto dalla Libia, dalla Siria o chissà ancora da dove un altro barcone, con tanti Aylan sopra, è già partito.

Certo, il rischio di anestitizzarci davanti al dolore, alla sofferenza, all’ingiustizia è qui, ben presente. Ma il problema io non credo che sia una foto che passa veloce nella nostra timeline di Facebook. Il problema è che stiamo mettendo l’accento su una foto e l’opportunità di pubblicarla o meno trascurando colpevolmente di parlare di ciò che quella foto rappresenta e del dramma di cui quella foto diventerà tristemente un simbolo, come tante prima di lei nella storia.
Vorrei e spero che questa foto diventasse piuttosto il motivo per discutere e per interrogarci nel profondo di quello che riguarda le questioni dei flussi dell’immigrazione e di ciò che ne è, ancor prima, causa. Che diventasse, come potrebbe dirci un semiotico, il significante che ci riporta ad un significato molto più profondo.
Aylan non è morto invano se qualcuno si mette una mano sulla coscienza, se prendiamo consapevolezza del terribile ruolo che l’Europa (o, a seconda, non) ha nelle guerre che falcidiano l’area araba e non solo. Non sarà morto invano fino, dopo aver adeguatamente pensato ora ad accogliere e farsi carico di chi da quelle terre scappa, non si troverà una soluzione, anche alla radice del problema.

La foto di Aylan appartiene alla storia. La sua, personale, del sogno della sua famiglia di andare in Canada, ma anche quella di ognuno di noi.
Per me questa foto rappresenta però anche uno specchio davanti a cui vedere la mia indifferenza quotidiana verso il mio prossimo. Quello che mi passa accanto ogni giorno. Ecco, Aylan non sarà morto invano ogni volta che la sua foto sarà per me il deterrente alle mie, piccole, guerre personali, quelle di tutti i giorni.
Io non posso fermare le guerre, non ho facoltà di decisione sulla sorte di chi attraversa il mare in cerca di una nuova, flebile speranza di vita. E’ colpa degli Stati Uniti, di chi vende le armi. Non penso sia un grande scoop. Ma poi io, concretamente, in tutto ciò che ruolo attivo posso davvero avere? Posso forse andare da Obama e dirgli: “senti un po’, basta vendere armi, ok?”. Forse no.

Forse vederci sbattuta davanti la foto di Aylan ci disturba non solo per l’ingiustizia, l’orrore e il dolore che ci racconta. Ma perché inconsciamente, a noi che dobbiamo sopportare la frustrazione di non avere il necessario potere di influenzare chi prende le decisioni politiche, quella foto chiede di cambiare e di prendere decisamente la strada della fraternità quotidiana, l’unica che possiamo percorrere concretamente per provare a cambiare davvero qualcosa. E quella foto sta lì, implacabile, a ricordarcelo.  A ricordarci che non possiamo lasciare ad altri il compito di costruire un mondo un po’ migliore. E allora, riguardiamocela ogni giorno, questa foto. Perché a dimenticare si fa molto in fretta.

La foto di Aylan forse qualcuno ha smosso, più di quanto abbiano fatto tante parole pronunciate negli ultimi tempi.  Ma in quella foto c’è Aylan, c’è una storia, c’è un popolo. Ed è a lui, al suo fratello e alla sua mamma, a suo padre rimasto in vita, a quanti sono morti con lui nella traversata e di cui non abbiamo una fotografia, a chi chiede una mano per avere una vita diversa e migliore che dobbiamo che il dolore e lo sgomento che il suo viso adagiato per sempre sulla battigia di una spiaggia diventi una molla: per non girarci più dall’altra parte ed essere, invece, parte del cambiamento di questa storia.

Non siamo solo italiani, francesi, tedeschi, siriani…siamo tutti cittadini di questo stesso mondo e abbiamo tutti lo stesso desiderio di felicità: è arrivato il momento di smettere di chiederci se sia giusto o sbagliato salvare e aiutare questa gente, ma di discutere solo di come farlo, e se potranno esserci dei rischi anche per noi beh…credo valga la pena correrli. [1].

“Perché l’unico pericolo che sento veramente, è quello di non riuscire più a sentire niente”.

Il biglietto dell’autobus

Biglietto a NapoliUna storia che non cambierà l’Italia, ma è bella da raccontare.

E’ presa – con il permesso dell’autrice – dalla bacheca facebook di una mia amica napoletana.

Napoli , Ore 15:00 circa , esco di casa , armata di valigia e del mio sgencissimo zainetto rosa per andare a prendere il bus.

Vado a comprare quindi un biglietto del bus, o almeno la volonta’ c’e’: a quell’ ora tutte le tabaccherie chiuse, i bar non vendono biglietti…e io non so come fare…passa il bus e io mi dico : “vabbe’ lo chiedo all’ autista e lo compro a bordo”.

Salgo sul bus e l ‘ autista mi dice che ha finito i biglietti. Io gli spiego che ho cercato una tabaccheria e che voglio comprarlo e lui si mostra disponibile e mi dice che e’ disposto a farmi scendere dal bus e aspettarmi per farmi comprare un biglietto ad una biglietteria elettronica. Scendo dal bus ( tutti mi guardano ovviamente XD), e la macchinetta elettronica si ruba i soldi senza darmi il biglietto (no comment).

Risalgo sul bus (in tutto cio’ avevo lasciato li valigia e zaino incustoditi) e spiego all’autista l’inconveniente e lui si mette a ridere e mi assicura che garantisce per me nel caso dovesse presentarsi un controllore.

Io non me la sento e decido di scendere quando una signora , ovviamente sconosciuta, con un sorriso bellissimo, si avvicina a me , e mi cede il suo biglietto dato che lei deve scendere dal bus.
Cosa dire? Sembrerà una cavolata, ma questa piccola, divertente avventura mi ha illuminato la giornata.

Devi fare sempre la tua parte

E così anche tu te ne sei andato.
Faletti è stato il mio professore di musica, e prima e dopo di me ha visto crescere generazioni e generazioni di ragazzi del mio paesino. Una figura riconoscibile a distanza, con quel bastone a fargli sempre compagnia. La sigaretta all’intervallo. E poi uno degli ultimi ad andare via sfrecciando sulla tua Opel parcheggiata nel cortile. E il mito di questo prof che quando non era a scuola andava a suonare il contrabbasso con i suoi amici.

Vincenzo Faletti, amante della buona musica, persona comprensiva e il giusto severa. Un insegnante che non si limitava a trasmettere nozioni, ma che ti faceva amare la sua materia, trasmetteva la passione per il Bello.

Un Prof che amava e sapeva farci esprimere per quello che eravamo, a costo di doversi sorbire Laura Pausini o Alex Britti nella sua versione più ‘commerciale’…si, dicevi che il primo disco ok, ma poi si era impoverito un sacco.

Ho in mente ora un’immagine: nell’aula di musica accampata alla belle e meglio in un locale adatto tutto fuorché a fare musica, mi interrogò sul jazz e mi diede insufficiente, a me che ero una che a scuola se l’era sempre cavata egregiamente. E mentre me lo dava, mi guardò negli occhi e mi disse: “Daniela, io lo so che sei brava. Ti avrei potuto dare un quasi sufficiente, ma oggi voglio insegnarti che non puoi appoggiarti al tuo sapere o alla tua memoria: devi fare sempre la tua parte”. Una lezione.

Stacco gli occhi dal computer e guardo là, nella mia stanza. Nell’angolo c’è la mia chitarra storica, proprio quella che tu mi hai insegnato ad accordare, che tu mi hai insegnato a suonare, ad amare. Ci abbiamo suonato tante cose, insieme, nel laboratorio di chitarra. Mi avevi insegnato a suonarci “Albachiara”, quasi fosse un basso. Poi il flauto. Te-e-e-e. Ta-ta-te-e-e-e. Qunate volte ci hai fatto leggere la musica!
Ho tante immagini adesso davanti, con la riconoscenza di poter essere stata tua alunna. Di aver imparato anche attraverso di te ad apprezzare la buona musica. E di essere cresciuta come persona, di aver imparato ad apprezzare e valorizzare le cose per quello che sono, non per quello che vorremmo che fossero.

Ripenso a tante cose, alle risate quando un mio compagno diceva al registratore che usavamo per fare ascolto: “si può fermare?”, pensando che era lei a leggere. Ti piaceva divertirci, raccontarci barzellette. E poi quando era necessario diventavi serissimo.

Ma, il primo pensiero che mi è venuto sapendo che da adesso sarai a suonare il tuo contrabbasso Lassù in cielo è stato per una cosa che mi avevi confidato, e che tante volte nella vita mi è tornata in mente. Una volta, mentre facevamo laboratorio di chitarra, non so come mai, eravamo arrivati a parlare di amicizia. E mi avevi detto che una delle cose che angustiava della vita era l’idea che l’amicizia non sempre è “per sempre”, che poi arriva la lontananza fisica, non ci si sente più per tanto tempo. Che bisogna vivere bene le cose che abbiamo perché non sappiamo se domani le avremo ancora. Forse è per questo che non amavi troppo Pat Metheny, era troppo malinconico, dicevi.
E’ una cosa, questa, che mi è tornata spesso in mente, in tante occasioni. E che mi è sempre servita molto per cercare di vivere al meglio quello che mi trovavo ad affrontare, i rapporti con le persone più care.

Ciao Vincenzo. Il suono del Cielo stasera sarà più melodioso che mai.

Michele M. su facebook scrive un post divertente, malinconico e ironico al punto giusto:
“Te, tatta te, te, te, tatta te…ragazzi voi provate un attimo che il prof. Vincenzo Faletti è uscito solo un secondo per farsi una sigaretta.”

Lettera aperta di una studentessa universitaria a @matteorenzi e @SteGiannini

Cari Matteo e Stefania,
sono una studentessa di Torino, iscritta al secondo anno del corso magistrale Comunicazione e Cultura dei media.

Ho scelto di riprendere gli studi dopo 3 anni dalla mia laurea triennale in Informatica, dopo aver lavorato, essere stata in cassa integrazione ed essere stata licenziata – quante esperienze per una 25 enne! – scegliendo questo corso perché sentivo la necessità di formarmi accademicamente in materie umaniste, dopo tanto contatto con computer, bit e tecnica. Perché sentivo la necessità di sapere cosa è l’uomo, di avere strumenti per saper guardare all’ambito che tanto amo, la comunicazione,  da una prospettiva che metta al centro l’uomo.
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#PrayLiveActForPeace

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Chi non si sente impotente di fronte alla guerra? Chi per un attimo non ha sentito i brividi alla schiena davanti all’idea di un aereo incidentalmente finito sotto il fuoco di due contendenti?
Quell’aereo ci ricorda che la guerra non è affare di qualcuno. È affare di tutti, perché la sua coda non sappiamo cosa e chi raggiungerà.

In questi giorni sui social network si usano tanti hashtag per commentare le notizie che arrivano dal Medio Oriente.
#PrayForPeace, lanciato a suo tempo da Papa Francesco, e  #PrayForGaza.

Chissà che fine ha fatto quell’albero piantato nei Giardini Vaticani nell’incontro di pace voluto da Francesco. Sarà appassito sotto i colpi di mortaio? Dietro le incursioni di terra, le ripicche, le scaramucce e i gridi di battaglia?
Chissà. Ma forse si può ancora salvare. Si può innafiare con un passo, senza aspettare che sia l’altro a farlo. Perché vinca chi per primo incomincia a togliere le pietre del muro di odio.

Certo, sono conflitti complessi, che non si possono risolvere con un post. Ma sono conflitti che fanno solo da specchio ai nostri, ai miei. Quelli ‘piccoli’, di tutti i giorni. Ma on meno insignificanti.

Ecco. Io vorrei lanciare un hashtag nuovo: #PrayLiveActForPeace.

Prega, vivi e agisci per la Pace.
Perché la Pace è una scelta, difficile, audace, eroica, di ogni giorno. Mai scontata. E ad ognuno, me compresa, viene chiesto di farla.
Siamo noi che possiamo scegliere.

E io spero di saperlo fare. Di sapermela conquistare.

Ramadan karìm!

ramadan

Per i fedeli islamici il Ramadan costituisce un periodo eccezionale dell’anno, un’insieme di pratiche religiose, che di per sé sono testimonianza della fede, che hanno un forte impatto sulla vita sociale e civica. La mattina, presto, prima del sorgere del sole, una sirena sveglia la città. Si comincia a cucinare per quella che sarà ben più di una colazione. E così alle 4 del mattino l’aria si riempi di aromi forti; si tratta di pasti sostanziosi, capaci di forza per affrontare un’intera giornata. Poi una seconda sirena: comincia il digiuno. Durante la giornata nessuno mangia o beve e anche chi non fosse tenuto a tale obbligo per religione o perché dispensato per l’età o la condizione di salute, evita di farlo. I luoghi di ristoro sono chiusi. E’ un rispetto dovuto e condiviso.C’è serietà in tutto questo, forse per qualcuno è solo esteriorità, ma rivela comunque il valore della fede. Poi, più si avvicina il calar del sole, più la vita si fa frenetica e si respira agitazione. Non si resiste più, si corre per arrivare a casa. La velocità dei taxi e autobus diventa spericolata, non si rispettano i semafori, non esistono regole. E forse l’ora più pericolosa per chi si trova in strada.
Un’ulteriore sirena, e come d’incanto si ferma. Si chiudono i negozi, le strade sono deserte. Un dattero, quell’agognato sorso d’acqua, i primi boccani e, “aperto” il digiuno, lentamente la vita riprende, le strade si rianimano, ma in modo pacato. Sono trenta giorni interminabili.
(“Oltre il velo nel cuore del Pakistan“- Daniela Bignone )

Buon Ramadam a tutti gli amici musulmani.

La signora Efisia

935737_647018518657380_231095322_nTorno a scrivere qui dopo tanto tempo.
Tante volte avrei voluto farlo ma poi sembrava che mancassero le parole. Non che le abbia ritrovate tutte, alcune giaciono in attesa di essere ripescate. Ma riprendere a scrivere qui è sempre un bell’esercizio, con me stessa.

Giovedì scorso sono andata in ospedale a trovare la nonna, che era lì da qualche giorno per una crisi d’asma.
Mi ha fatto impressione entrare nell’ospedale. Ho percorso tante volte i corridoi alla ricerca di quello giusto dove era la nonna e ho incrociato, guardando nelle stanze, tanti volti, per lo più di anziani.
Mi è venuto un groppo in gola, ma non capivo cosa lo muovesse.

Poi finalmente sono arrivata nella stanza giusta.
Nel letto accanto a quello della nonna c’era una signora con una flebo nel braccio che mi guardava.
Ad un certo punto mi ha detto: “Signorina, mi può fare un favore?”. “Certo!”.  “Mi può girare?”. “Ok”. L’ho girata e dopo mi ha chiesto di grattarle la schiena. Le ho grattato la schiena. Poi ha chiuso gli occhi, come per dormire.
Poi ha riaperto gli occhi e dopo un po’ la scena si è ripetuta.
Quando era ora di andarmene, mi sono voltata e le ho chiesto: “Come si chiama”? Lei mi ha risposto. “Efisia”. “Come scusi?”. “E-f-i-s-i-a”.
E’ una cosa che ho imparato ultimamente, quella di chiedere il nome delle persone che incontro. Mi capita al mercato, ai ragazzi che vendono gli occhiali davanti all’università… Crea un legame, chiedere il nome. Non è più solo un volto, è un universo che ti si staglia davanti e che tu per qualche minuto puoi accogliere dentro di te.
La signora Efisia. Prima di uscire dalla stanza mi ha fatto un grande sorriso.
Mi sono chiesta cosa vuol dire stare nel letto di un ospedale e avere bisogno che qualcuno ti gratti la schiena.
Sono uscita da quell’ospedale sotto la pioggia, senza ombrello. Con negli occhi il sorriso della signora Efisia che si è allargato davanti per ringraziarmi di quel piccolo servizio che le avevo fatto. Sentivo che il mio cuore per un po’ era diventato più largo e per qualche tempo aveva trovato spazio anche la signora Efisia.
Ecco, forse il groppo in gola entrando in quel luogo era la paura di non saper meritare una “vita piena”. Di non sapere avere un cuore largo. Un cuore capace di allargarsi. Che non condanna, che comprende, che accompagna.
Non ne sono capace, conosco i miei infiniti limiti con cui ho a che fare tutti i giorni. Ma almeno ci voglio, ci posso provare.

Ogni giorno

OmbrelloStamattina al bar un signore seduto mi guarda e mi dice: “Giovane.. tu sai cos’é l’amicizia?”

Sto per rispondere e mi interrompe: “Lo vedi quel signore laggiù? Quello é il mio migliore amico.. siamo nati nel ’39, siamo nati e cresciuti insieme, io gli ho fatto da testimone a nozze e lui l’ha fatto a me.. abbiamo comprato la terra da lavorare insieme e tutti i giorni venivamo in questo bar e prendevamo un bianchino e leggevamo le notizie.. Lui me le leggeva perchè io non so leggere. E io ascoltavo. Sempre insieme. Nel 78 abbiamo litigato, ce le siamo anche date e da quel giorno non ci siamo più parlati, neanche un ciao. Beh, ti diró, dal 78, nonostante tutto, ogni giorno veniamo qui, sempre alla stessa ora. Ogni giorno ci vediamo, non ci salutiamo e ci sediamo in due tavolini differenti. Entrambi prendiamo un bianchino, tutti i giorni lui prende il giornale e legge le notizie ad alta voce. La gente pensa che sia matto, ma lo fa per me. Dal 78. ”  Sonia Manno