Devi fare sempre la tua parte

E così anche tu te ne sei andato.
Faletti è stato il mio professore di musica, e prima e dopo di me ha visto crescere generazioni e generazioni di ragazzi del mio paesino. Una figura riconoscibile a distanza, con quel bastone a fargli sempre compagnia. La sigaretta all’intervallo. E poi uno degli ultimi ad andare via sfrecciando sulla tua Opel parcheggiata nel cortile. E il mito di questo prof che quando non era a scuola andava a suonare il contrabbasso con i suoi amici.

Vincenzo Faletti, amante della buona musica, persona comprensiva e il giusto severa. Un insegnante che non si limitava a trasmettere nozioni, ma che ti faceva amare la sua materia, trasmetteva la passione per il Bello.

Un Prof che amava e sapeva farci esprimere per quello che eravamo, a costo di doversi sorbire Laura Pausini o Alex Britti nella sua versione più ‘commerciale’…si, dicevi che il primo disco ok, ma poi si era impoverito un sacco.

Ho in mente ora un’immagine: nell’aula di musica accampata alla belle e meglio in un locale adatto tutto fuorché a fare musica, mi interrogò sul jazz e mi diede insufficiente, a me che ero una che a scuola se l’era sempre cavata egregiamente. E mentre me lo dava, mi guardò negli occhi e mi disse: “Daniela, io lo so che sei brava. Ti avrei potuto dare un quasi sufficiente, ma oggi voglio insegnarti che non puoi appoggiarti al tuo sapere o alla tua memoria: devi fare sempre la tua parte”. Una lezione.

Stacco gli occhi dal computer e guardo là, nella mia stanza. Nell’angolo c’è la mia chitarra storica, proprio quella che tu mi hai insegnato ad accordare, che tu mi hai insegnato a suonare, ad amare. Ci abbiamo suonato tante cose, insieme, nel laboratorio di chitarra. Mi avevi insegnato a suonarci “Albachiara”, quasi fosse un basso. Poi il flauto. Te-e-e-e. Ta-ta-te-e-e-e. Qunate volte ci hai fatto leggere la musica!
Ho tante immagini adesso davanti, con la riconoscenza di poter essere stata tua alunna. Di aver imparato anche attraverso di te ad apprezzare la buona musica. E di essere cresciuta come persona, di aver imparato ad apprezzare e valorizzare le cose per quello che sono, non per quello che vorremmo che fossero.

Ripenso a tante cose, alle risate quando un mio compagno diceva al registratore che usavamo per fare ascolto: “si può fermare?”, pensando che era lei a leggere. Ti piaceva divertirci, raccontarci barzellette. E poi quando era necessario diventavi serissimo.

Ma, il primo pensiero che mi è venuto sapendo che da adesso sarai a suonare il tuo contrabbasso Lassù in cielo è stato per una cosa che mi avevi confidato, e che tante volte nella vita mi è tornata in mente. Una volta, mentre facevamo laboratorio di chitarra, non so come mai, eravamo arrivati a parlare di amicizia. E mi avevi detto che una delle cose che angustiava della vita era l’idea che l’amicizia non sempre è “per sempre”, che poi arriva la lontananza fisica, non ci si sente più per tanto tempo. Che bisogna vivere bene le cose che abbiamo perché non sappiamo se domani le avremo ancora. Forse è per questo che non amavi troppo Pat Metheny, era troppo malinconico, dicevi.
E’ una cosa, questa, che mi è tornata spesso in mente, in tante occasioni. E che mi è sempre servita molto per cercare di vivere al meglio quello che mi trovavo ad affrontare, i rapporti con le persone più care.

Ciao Vincenzo. Il suono del Cielo stasera sarà più melodioso che mai.

Michele M. su facebook scrive un post divertente, malinconico e ironico al punto giusto:
“Te, tatta te, te, te, tatta te…ragazzi voi provate un attimo che il prof. Vincenzo Faletti è uscito solo un secondo per farsi una sigaretta.”

Citazione

Osserva più spesso le stelle

233218_985053657_scusa_H181830_L

Osservate più spesso le stelle. Quando avrete un peso nell’animo, guardate le stelle e l’azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, quando qualcosa non vi riuscirà, quando la tempesta si scatenerà nel vostro animo, uscite all’aria aperta e intrattenetevi da soli col cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete.
Pavel Florenskij

Essere sensibile

vivereEssere una persona sensibile vuol dire percepire un tono di voce distante durante una telefonata, riconoscere l’ansia, la paura e la tristezza nella faccia degli altri. Essere sensibile vuol dire fare caso a tutto, e con “tutto” intendo veramente qualsiasi cosa: un fiore sconfitto dal vento, un cane solo, un colore diverso del cielo, un sorriso più sentito, una parola colorata in mezzo a tante parole anonime. Essere sensibili vuol dire vivere dieci, cento, mille vite ogni giorno. Quando sei sensibile non puoi fregartene, farti gli affari tuoi, lasciar perdere. Chi è sensibile, se sa di aver ferito qualcuno si tortura per ore ed ore pensando alla sensazione che gli ha fatto provare. Chi è sensibile vive una fatica immensa.
Ma consideralo sempre un dono, mai una disgrazia.
(Susanna Casciani)

Lo conosco fin troppo bene.

Una scatola di medicine

tamiflc3ba-rocheEro a casa della nonna e l’aiutavo a sistemare le medicine.
Ha tre grossi contenitori, uno per la mattina, uno per il pranzo e uno per la cena. E dentro ad ognuno le varie scatole delle medicine che deve prendere.
E siccome capita che le metta in disordine, bisogna darci un occhio, ogni tanto. Allora bisogna aprire le scatole e controllare che dentro ci sia effettivamente la cartina di quella medicina.
Così avevo notato diverse cartine con poche pastiglie ancora da usare e molti “buchi”. E’ stato quasi automatico pensare di “bonificare” togliendo tutte la parti già usate per lasciare soltanto la parte ancora da usare. Utile e funzionale all’uso, no?

L’ho fatto per la prima scatola, poi per la seconda. Alla terza però mi sono fermata. “Ma se in realtà tenere la cartina intera serve anche perché sia più semplice prenderla da dentro queste scatole così piccole e strette? E che se io tolgo tutto il resto rimangono dei francobolli che finiscono dentro la scatola e la nonna deve non poco armeggiare per riuscire a prendersi le medicine?“.

Nella mia testa avevo trovata giusta la precisione certosina di lasciare tutto alla nonna pronto in quello che mi sembrava il giusto ordine delle cose. Eppure … eppure guardando le cose da una prospettiva un po’ diversa da quella che mette tutto perfettamente e logicamente a posto, mi son resa conto che quell’azione che a me sembrava “necessaria” e giusta (che senso ha tenere questa cartina mezza usata), vista con l’esperienza di un altro sguardo mi faceva vedere delle “conseguenze” che non avevo minimamente tenuto in considerazione.

Come tante altre volte, mi è sembrata una metafora valida anche per la vita e per i rapporti umani di tutti i giorni. Non è così? Che noi abbiamo deciso per l’altro cosa gli va bene, senza ricordare che quello che è valido per me, non è assolutamente detto che sia la cosa più utile e funzionale, la perfezione anche per un altro.

Vuota e piena

image

Oggi, tornando dalla passeggiata, passavo a lato della strada, dove in mezzo c’era il mercato, che avevo appena attraversato ed esplorato. Sicura di aver visto tutto.
Ma da quella nuova angolazione ogni tanto l’occhio cadeva di nuovo sulle bancarelle, viste da una prospettiva però questa volta diversa. Da dietro.
E l’occhio finiva per indugiare su cose che passandoci in mezzo, non avevo visto o non avevo potuto notare, proprio perché nascoste.

Quante volte nella vita è lo stesso? Guardi e riguardi una cosa, la attraversi. Pensi di averla capita e attraversata tutta.
E invece, se cambi prospettiva, se la guardi da dietro, ti rendi conto di particolari che non avevi notato. Di sfumature che non avevi colto. Di storie che possono essere diverse da come le avevi immaginate e ‘capite’.
Oggi al mercato ho capito che non mi devo accontentare di una prospettiva. Quella che fa vedere le cose belle, le sfumature più accese, è quella che vede ‘dietro’. È quella che guarda ‘sotto’, ‘dentro’. E’ quella che passa per il dolore, il non capire, attraverso le proprie paure.

Che ti mettono lì. Vuota, al fondo.
Piena, accanto.

#PrayLiveActForPeace

image

Chi non si sente impotente di fronte alla guerra? Chi per un attimo non ha sentito i brividi alla schiena davanti all’idea di un aereo incidentalmente finito sotto il fuoco di due contendenti?
Quell’aereo ci ricorda che la guerra non è affare di qualcuno. È affare di tutti, perché la sua coda non sappiamo cosa e chi raggiungerà.

In questi giorni sui social network si usano tanti hashtag per commentare le notizie che arrivano dal Medio Oriente.
#PrayForPeace, lanciato a suo tempo da Papa Francesco, e  #PrayForGaza.

Chissà che fine ha fatto quell’albero piantato nei Giardini Vaticani nell’incontro di pace voluto da Francesco. Sarà appassito sotto i colpi di mortaio? Dietro le incursioni di terra, le ripicche, le scaramucce e i gridi di battaglia?
Chissà. Ma forse si può ancora salvare. Si può innafiare con un passo, senza aspettare che sia l’altro a farlo. Perché vinca chi per primo incomincia a togliere le pietre del muro di odio.

Certo, sono conflitti complessi, che non si possono risolvere con un post. Ma sono conflitti che fanno solo da specchio ai nostri, ai miei. Quelli ‘piccoli’, di tutti i giorni. Ma on meno insignificanti.

Ecco. Io vorrei lanciare un hashtag nuovo: #PrayLiveActForPeace.

Prega, vivi e agisci per la Pace.
Perché la Pace è una scelta, difficile, audace, eroica, di ogni giorno. Mai scontata. E ad ognuno, me compresa, viene chiesto di farla.
Siamo noi che possiamo scegliere.

E io spero di saperlo fare. Di sapermela conquistare.

Tutte le volte che … una Commedia Divina

candelaTutte le volte che sentirai la disperazione dell’anima
e continuerai a sorridere
e a parlare agli altri di speranza;
tutte le volte che sentirai la morte dell’anima
e continuerai a sorridere
e a parlare agli altri di amore
e ad amare concretamente;
tutte le volte che avrai l’anima piombata nel buio più assoluto
e continuerai a sorridere
e a parlare agli altri di luce;
ti sembrerà di fare una commedia,
di non essere nella verità.
Ricordati:
quella è la Commedia Divina,
è la logica del dono autentico!
E’ essere con Gesù sulla Croce!

(Chiara Lubich)

Come quell’albero

image

Oggi mentre studiavo, sbobinando quintali di ‘è chiaro questo concetto?’, guardavo fuori da quella finestra che dà sui tetti del centro città. Guardavo e osservavo il cielo, in questi giorni torinesi così volubile: uno squarcio di sole, poi di nuovo le nuvole, pioggia scrosciante e improvvisa, folate di vento che piegano le foglie del grande albero e che fanno muovere le antenne sulle case.
È come se il tempo in questi giorni seguisse il ritmo incessante delle mie paure, dei miei pensieri, di quel giornaliero stillicidio emotivo, in un certo senso, che mi accompagnerà, volente o nolente, fino a settembre. Con quella sottile ma quanto mai presente tentazione di leggere dietro parole, gesti o atteggiamenti una cosa o l’altra, ben sapendo che il Regista di questa vita sa meglio di noi come condurre le cose. Anche quando ci fanno male e soffrire, potenzialmente.

Mi sento come quell’albero, che gode di quella punta di Sole che esce come chi nel deserto accede ad un sorso d’acqua; e che vuole provare ad accettare l’impetuosità del vento che gli scompiglia le foglie, a volte senza pietà.
Sapendo che anche questo soffrire ha un senso che va al di là del mio capire.

(Photo credit di un mio contatto di Facebook)

Ben tornata, chitarra!

La mia chitarraQuesta è la mia chitarra. Quella storica, che mi ha accompagnato per tanti anni nella mia adolescenza.

Congressi, vacanze, gite. Dove c’ero io, c’era anche lei. Dove c’era lei, c’ero anche io. Una sorta di “coperta di Linus”, tanto che mi ero meritata, ad un certo punto, il soprannome di “Juboxe”. Era come fosse un prolungamento delle mie braccia.
Ricordo quella volta che ho provato a portarmela dietro anche in p.zza San Pietro, in mezzo a migliaia di persone in un caldo pomeriggio di inizio giugno, appena diventata maggiorenne. E la disperazione di avere avuto l’idea di portarmela dietro, in mezzo a quella calca umana. E, ovviamente, fortuna volle che la polizia, nei suoi controlli random per gli accessi in piazza, chiese a me di poterla aprire per controllarne il contenuto, vuoi mai che li dentro ci portassi un mitra! 😀
Ma poi eccome se tornò utile. Non con una strimpellata, ma come “cuscino” su cui distendersi, 30 secondi, appena conquistato il mio posticino in mezzo a quel mondo variopinto.

E poi … e poi per un po’ è stata “abbandonata”, lassù in mansarda.

In questi giorni, complice l’aver restituito la più moderna acustica che per un po’ ho custodito nel frattempo di restituirla alla proprietaria, sono andata a riprendermela, non senza un filo di emozione, da lassù. Era un po’ da risistemare, una corda rotta, ma un po’ di manutenzione e l’ho rimessa in sesto. Rimessa in sesto per altre battaglie e altre avventure, chissà.

Ho postato questa foto su Facebook e sotto l’immagine sono incominciati ad arrivare copiosi, i commenti di tanti amici, vicini e lontani. Coloro che mi hanno visto utilizzarla negli anni, che ne hanno sentito uscire le note, gli accordi, uno dopo l’altro. Coloro che l’hanno “firmata” e che hanno lasciato così un pezzetto di loro sul legno chiaro della cassa della chitarra. Cosa per cui un giorno mi presi una sonora sgridata da una musicista. Perché ovvio, tutte quelle scritte e le manine “rovinano” la cassa e la sua acustica. E pazienza, ormai il danno era fatto. Ed ero pronta a sacrificare un po’ di perfezione sonora per portami sempre in giro i miei amici e i miei ricordi.

Mi hanno fatto molto piacere tutti gli attestati di “stima” e di affetto per questa mia chitarra anche se in fondo, mi dicevo, è solo un oggetto.
Si è vero, è solo un oggetto. Ma è bello scoprire come questo oggetto, usato in mille e mille occasioni, sia stato in fondo catalizzatore di tanti rapporti.
Ed è bello riscoprire che, come tutti gli oggetti che ci sono dati in dono, tanto dipende da come e per cosa li usiamo.

Un accordo. Una nota. Tanti amici e amiche fatti cantare.
E’ ora di riprendere la tua carriera, cara chitarra 😉