Tutti i giorni passo davanti al centro immigrazione.
È sempre un via vai di persone, facce che raccontano di mille storie, mille esperienze, fatiche, speranze e sogni.
Qualcuno che corre perché in ritardo, con tutti i documenti in mano, o quando va bene dentro ad una cartellina. Altri che magari si son dimenticati la fototessera per i documenti e che se ne fanno fare una al volo al chioschetto ambulante che staziona davanti alla porta di ingresso, con i suoi odori (puzza di fritto solitamente) e la sua musica sparata a tutto volume. Basta sedersi su uno sgabello di plastica con dietro uno sfondo bianco, e il fido ragazzo che fino a tre minuti fa cucinava nel suo centimetro quadrato si arma di una digitale compatta e ti scatta una foto. Poi te la stampa con la stampante et voilà, ecco la tua fototessera. Tutto molto improvvisato.
Questo angolo è proprio un piccolo pezzo di mondo, e non solo per le variegate lingue che capita di sentire, o per i diversi colori che capita di vedere.
Stamattina arrivando ho visto una coda di ragazzi africani che sfidando il gelo di questi giorni aspettavano di poter entrare.
Le conoscete quelle grandi ammucchiate all’italiana? Quella dell’entro prima io, ero in coda da quindici anni, lui mi teneva il posto, non sai chi sono io, etc. L’avete presente? Chi non l’ha mai vissuto una volta, in banca, al supermercato, alla posta …
Ecco, per un attimo dimenticate tutto ciò e immaginatevi tanti ragazzoni in fila, uno per uno, con una grande compostezza, con ordine.
Nessuno che cerca di saltare la fila, nessuno che protesta o sovrasta gli altri.
Mi sono fermata a contemplare quella bella immagine e gli ho lasciato un sorriso.
E’ vero, l’educazione e il rispetto delle regole non hanno nazionalità. Ma stamattina mi dicevo che noi italiani avevamo qualcosa da imparare.